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Biblioteca Ariostea

FINIAMOLA! Testi da 1 a 20

Ecco l'incipit

Era un bel sabato di primavera. Come tanti altri, per la verità; niente di particolare. Per prima cosa avevo preparato un’abbondante macedonia di frutta in una ciotola, come facevo ogni mattina ormai da anni. Lavare, pelare e tagliare a pezzetti la frutta di stagione mi aiutava ad affrontare la giornata con lo spirito giusto. Quasi un esercizio zen, anche se non so bene come funzionino queste pratiche orientali. Poi, avevo acceso il televisore per ascoltare le ultime notizie. Consueta intervista al logorroico politico di turno, classica oscillazione delle borse asiatiche, qualche brutto incidente stradale, il meteo del fine settimana. La solita solfa. Spensi la televisione e mi preparai per uscire. Prossime tappe: giornalaio, bar per un buon caffè e salto in biblioteca a riconsegnare un paio di libri appena terminati e a controllare le ultime novità letterarie. Inforcai la bicicletta e mi avviai, forte della convinzione che sarebbe stata una mattinata di tutto riposo, fisico e mentale.

Ed ecco i finali in rigoroso ordine di arrivo

Marcello Goberti
 
E mi sbagliavo.
Nel tragitto di tutte le mattine un cartello “Lavori in corso” mi obbliga a cambiare strada. Così, dopo una brusca frenata, decido di deviare e addentrarmi nel groviglio delle anguste vie del centro storico. Viottoli e stradine che si incrociano e giocano con me che, disperato e perso, cerco solo una via d’uscita per tornare alla mia quotidianità. E non la trovo.
L’ansia cresceva, sentivo il bisogno di un caffè e non sapevo nemmeno dove fossi finito: mi ero perso, nella mia città, a duecento metri da casa.
Penso di usare il telefono per orientarmi ma ricordo di averlo lasciato in cucina nella fretta di uscire. Pedalo a vuoto: la catena della bicicletta si è rotta. Mi chino a guardare e mi cadono gli occhiali da sole. Poco male, sta iniziando a piovere. Ma ecco una panchina al di sotto di una pergola che mi ripara dalla pioggia. Mi siedo, accendo una sigaretta e inizio a leggere. Non era il mondo che si era dimenticato di me ma io che mi ero dimenticato di lui.
 
Cristiano Contini
 
Mi diressi verso l’edicola vicino a casa mentre un taxi volante sfrecciava a tutta velocità sopra la mia testa e, una volta giunto, caricai nel chip sottopelle l’edizione giornaliera della cronaca locale che avrei comodamente visionato nel pomeriggio sul divano del salotto.
Poi, mentre mi recavo al bar della piazza centrale, incrociai diverse persone munite di mascherina che sembravano pronte per una sfilata; sfoggiavano gli ultimi modelli griffati della stagione primavera-estate in un susseguirsi di forme e colori sgargianti, dalla semplice mascherina sanitaria alla ultima novità FP9.
Improvvisamente il cielo si fece cupo e un roboante tuono mi fece sussultare...... aprii gli occhi, il Presidente del Consiglio annunciava la vittoria sulla pandemia, cominciava la Fase 2, si tornava a vivere!!!
 
Tommaso Coatti
 
Un libro che diventa realtà ai tempi del Coronavirus
Ben presto però, quasi giunto alla biblioteca Ariostea, m’imbattei all’inizio di via Mazzini con un gigantesco dinosauro, un dinosauro di cui avevo appena letto nei miei libri presi in prestito, ma questo era diverso, era di carne e ossa, era un vero Tirannosauro e mi veniva incontro quasi per volermi mangiare.
Io avevo molta paura perché i miei genitori mi avevano sempre detto che i dinosauri si erano estinti e invece... Tirex avanzava verso di me e io avevo già visto in faccia la morte, ma improvvisamente mi guardò e mi disse: “Tommy non avere paura, io ti voglio solo dare un bacio, niente di più!”
Allora io lo guardai e gli dissi con fare deciso: “Tirex lo sai che non possiamo farlo... viviamo all’epoca del Coronavirus, quindi niente baci ed abbracci, soprattutto tra sconosciuti”. Tirex mi guardò con fare sconsolato, mi fece l’occhiolino e prima di andarsene mi disse: “Certo Tommy, hai proprio ragione, sarà per la prossima!”.
Allora io presi la mia bici ed arrivai all’Ariostea con la mia mascherina avvolgente, riconsegnai i libri sui dinosauri e ne presi altri su zombie e fantasmi...chissà se la prossima volta incontrerò loro sul mio cammino e finalmente riuscirò a baciarli ed abbracciarli, così vorrà dire che questo tremendo re con la corona finalmente se ne sarà andato... per sempre.
 
Anonimo (Charles Bukowski)
 
Tre pedalate, e incontro Lui. Quello con l’alito fetente. L’amico cui nessuno ha il coraggio di dire che o le caramelline alla menta, o il dentista, o la solitudine. Mi è anche simpatico, ma non reggo la sua vicinanza. Ovviamente mi saluta e mi fa segno di fermarmi. La mattina è già rovinata, mi dico, mentre faccio stridere i freni della ottava bicicletta acquistata nell’ultimo anno e mezzo. Un veloce pensiero alle altre sette, forse al sicuro tra i Balcani e il Mar Nero, quando il suo abbraccio mi riporta alla realtà. Una realtà intollerabile. Ogni spirito zen mi abbandona, mentre la cloaca rilascia effluvi tossici. Quasi glielo dico, è l’occasione buona... Poi lascio perdere. Gli voglio bene, in fondo. Mi chiedo se lui ne voglia a me, e agli altri suoi amici. E’ evidente che non se ne rende conto, ma se nessuno gli presenta mai il problema, è da escludere che lo possa risolvere. Ma taccio. Soffro e sopporto. Sono un codardo. E accetto la sconfitta, invidiando chi ha solo amici alla lavanda. Meglio, alla fragola….
 
Roberto Giacometti
 
È destino
Già, ma non avevo tenuto conto di come ama beffarci il destino, dell’inceppo di un ingranaggio della Macchina che da chissà dove, invisibile ed enigmatica, governa ogni alito di brezza su questa Terra. Ne diedero notizia i giornali del giorno dopo, senza troppa enfasi nelle pagine interne, quasi si trattasse del solito gatto salvato dai pompieri. Quella mattina si udì nel cielo un clangore metallico e poi un boato. Molta gente abituata a quel frastuono, me compreso, pensò: «Ecco, ci risiamo!». Da molto tempo, infatti, la Macchina aveva preso a guastarsi con sempre maggiore frequenza. I semafori impazzirono e ne seguirono brusche frenate e qualche botto. Alla Signora Pina del terzo piano sfuggì dalle mani il vaso di gerani che stava concimando, che si sbriciolò con un tonfo davanti alla mia ruota. Ma stavolta fui svelto e riuscii a sterzare. In compenso travolsi il postino, dalla cui borsa si sparse sull’asfalto una marea di buste celesti, su una delle quali scorsi il mio nome. La aprii e lessi “Si annuncia per oggi, alle 9:07, un guasto della Macchina. Si consiglia di restare in casa.” Troppo tardi, come sempre. È destino.
 
Silvia Seracini
 
Lo zen e l’arte di preparare il caffè
Il mio giornalaio di fiducia aveva terminato le riviste che potevo ritirare gratuitamente in cambio dei coupon premio per i sondaggi che compilo di tanto in tanto. Pazienza: mi consolai con un giro fra le bancarelle del mercato in attesa delle undici, l’ora del caffè alla Tazza d’Oro. Mentre ero indecisa fra un costume da bagno e degli stivali di gomma niente male – visto mai che possano tornare utili, non si sa mai – già cominciavo a pregustarne l’aroma. Quanto mi erano mancati quei caffè. Mentre mi perdevo nell’estasi dell’incontro, considerai che ne avevo saltati almeno… cento. Due mesi chiusa dentro casa erano passati in un soffio, fra lavoro agile e letture. A saperlo avrei preso più libri in prestito. Poco male: in tempi di crisi mi sostiene la biblioteca che mi ha lasciato mio padre. Per il resto, l’unica cosa che mi era mancata davvero durante quei due mesi di reclusione forzata erano stati proprio i caffè al bar. Giurai a me stessa che avrei recuperato il tempo perduto.
 
Mara Fustini
 
Ricordai che, sempre una di quelle teorie zen recitava “cambiare itinerario fa bene alla mente” così, con una “piega” degna del Dottore Valentino, mi infilai in quel vicolo che non percorrevo da almeno trent’anni e che, stranamente, oggi aveva i cancelli aperti. Scesi dalla bicicletta e mentre la chiudevo sorrisi al pensiero che se l’avessi ritrovata al mio ritorno sarebbe stato un miracolo. Mentre camminavo lentamente sull’acciottolato ricordavo che ci facevo servizio lì, in Vicolo dei Duellanti, per controllare che non vi fossero persone abbandonate agli effetti delle droghe. Com’è diverso oggi: le belle facciate di mattoni sono interrotte dai davanzali pieni di gerani bianchi e rossi; da qualche finestra affaccia la bandiera con l’arcobaleno della pace e si sente profumo di incenso indiano. Percorro il Vicolo fino a Piazzetta San Michele dove il sole, l’odore della nebbiolina e il silenzio ferrarese mi avvolgono di armonia e quiete. Non voglio tornare alla bicicletta.
 
Elisabetta Giberti
 
Il braccialetto
Tra una vetrina e un’altra, imbocco via Mazzini, niente di più bello che bighellonare tra bar e negozi. L’unica scocciatura è chiudere la bici ogni volta perché  la lasci aperta ed è un attimo che ne ritrovi due. Entro nel quinto negozio: ”Do un’occhiatina!” Faccio un giro, tocco tutto, a volte provo qualcosa poi vado: “Arrivederci e grazie”. Oggi c’è un’altra che scombina la fila di maglioncini… le guardo le mani: ma quello è il mio braccialetto! L’avevo perso per strada il mese scorso, e avevo anche fatto denuncia: legato in oro bianco, lavorato a mano e con pietre dure. Quando mio marito me l’aveva regalato, acquistandolo in una famosa gioielleria, non gli avevo dato valore, tanto che ero andata per cambiarlo. Mi avevano descritto quell’oggettino unico e prezioso, scelto con amore ed avevo cominciato ad amarlo! Col tempo era finito in cassaforte per la nostra innata tendenza a conservare le cose per non sciuparle ma ultimamente avevo ricominciato a portarlo e l’avevo perduto! Che dispiacere, non l’avevo messo per anni! Ora era sotto i miei occhi, al polso di quella ragazza. Sentii il volto avvampare: “Quel bracciale è mio!” “Ma come, me l’ha regalato il mio ragazzo!” “E dove l’ha preso?”, incalzavo. Poi si è cominciato a parlare, quasi da madre a figlia. Così le ho instillato il dubbio: il bracciale le era stato messo al polso, senza pacchetto o confezione, dal suo uomo che per la prima volta le aveva fatto un pensiero, fin lì mai una cena, mai un fiore. “Gli uomini non ci pensano, l’importante è la passione” anche se erano diventati incontri frettolosi e poco soddisfacenti. Poi aveva capito: c’era una moglie, una famiglia. Aveva pianto con le amiche, poi si era abituata, prigioniera delle consuetudini, della paura della solitudine e delle speranze disattese. Si era attaccata a quel dono, da lei inaspettato ma fortuito per l’uomo privo di fantasia che l’aveva trovato. Ora anche quell’illusione era svanita e la delusione negli occhi della ragazza lasciava posto a risentimento e rabbia. Il braccialetto me l’ha dato ma non l’ho più portato. Spero che Martina si sia liberata anche di quella storia inutile. E se fosse stata tutta una invenzione, o se l’uomo avesse davvero acquistato per lei un bracciale simile al mio?  Non lo so, so solo che adesso è lì, di nuovo dentro il suo astuccio, tra l’anello di fidanzamento e la collana della laurea, in attesa di nuore affezionate, rimpiangendo i tempi migliori e la sua piccola avventura.
 
Maurizio Olivari
 
Arrivato all'edicola vi trovai appeso un cartello con scritto “ chiuso per lutto”. Conoscevo molto bene Antonio, giornalaio da più di 30 anni, ci salutavamo tutte le mattine commentando anche i titoli dei vari quotidiani, sui quali era informatissimo, in quanto appassionato lettore. Il materiale non gli mancava. Preoccupato per “ il lutto”, lui viveva solo e non aveva parenti, chiesi nel vicino bar se avessero notizie in merito, senza risultato. Decisi di conoscere cosa fosse successo, andando a casa di Antonio. Velocemente, con la mia bicicletta che a causa dell'età e delle condizioni di manutenzione,  faceva un tale rumore da giustificare il termine dialettale di “ratara”, arrivai all'indirizzo. Suonai ripetutamente e cominciai a preoccuparmi per la mancata risposta. Antonio era anziano e sembrava comunque in buona forma. La sua morte mi avrebbe addolorato. Improvvisamente  si aprì la porta e comparve il giornalaio in ottima forma, giustificando la chiusura con:- Oggi non è uscito un giornale per fallimento della testata. Quando si perde una parte dell'informazione è una giornata di lutto.- Lo abbracciai.
 
Bizzarri Carolina
 
Pedalai con tutta l’energia che avevo, il vento mi accarezzava Il viso e giocava con i miei  capelli, non sapevo nemmeno io dove volevo  andare.
Mi sentivo diversa, dopo tanti giorni passati in solitudine. Imboccai la strada che portava in centro e mi fermai davanti ad una vetrina di abbigliamento. Perché non mi interessava più quel delizioso abitino  azzurro esposto con cura sul manichino? Eppure a me era sempre piaciuto sentirmi ben vestita, curata, elegante. Possibile che due mesi di silenzio mi avessero cambiato il carattere, i desideri, i sogni? Non entrai, anche se con me avevo portato il denaro, perché pensavo che la prima volta che sarei uscita avrei comprato di tutto e di più.
Ripresi la bicicletta che avevo appoggiato al muro e ritornai  lentamente verso casa, guardando con occhi diversi ciò che vedevo intorno; mi sembravano immagini mai viste prima, luoghi sconosciuti  e mi pareva di sentire un profumo di rose, ma le rose non c’erano. Guardavo  la campagna, gli alberi che avevano messo le prime foglie, l’erba di un verde pallido  che pareva accompagnarmi verso casa, umile e silenziosa. Mi sentivo felice, era così che volevo essere.
 
Michele Farinelli
 
L’aria era frizzante e pedalare per le vie deserte mi dava la solita sensazione, quella di avere un posto in prima fila. Il silenzio penetrante mescolato al suono delle ruote che scorrevano sull’acciottolato e la vibrazione che di rimando arrivava alle mie mani, strette sulle manopole, erano un tutt’uno con il mio andare. Avrei potuto tagliare giù per la prima viuzza a destra, ma non volevo assolutamente perdere il privilegio di una via tutta mia, con quella striscia di cielo lungo e stretto. Da qualche finestra in alto, mi raggiungeva l’aroma di una moka e il suo racconto di gesti lenti, di quell’intimità di casa, quando giorno ancora del tutto non è, e pensieri e desideri sono nella loro massima potenza.
Raccoglievo impressioni che fissavo a matita sul mio taccuino, arrivavano come immagini stimolate da un aroma o da un suono, come quello di un treno che in quel momento stava transitando nella stazione ferroviaria, nemmeno troppo vicina, portato dal vento, complice il silenzio. Mi fermai, restando in sella, per registrare l’attimo:
Risulta
molto più vicino
lo sferragliare
di un merci
portatomi
da un vento a favore
del mio sguardo
dinanzi al mio passo
Il centro della città era dietro l’angolo e come al solito mi accolse nella sua preparazione, come si accoglie chi arriva prima che si aprano i giochi. Il giornalaio intento a sistemare i quotidiani con l’odore della stampa fresca… l’aroma del pane, delle paste e dei dolci, uscire dai forni come opere d’arte… e il caffè espresso, nero e senza zucchero, come uno specchio cieco.
Le persone iniziavano ad arrivare e io mi preparavo a ripartire, con quel suono nel cuore che diceva, potete venire è tutto ottimo.
Il percorso per la biblioteca non fu il più corto, perché qualcosa mi risuonava dentro e non doveva andar persa, come riassorbita nel sacchetto di consonanti e vocali:
Filtro il silenzio
nel frastuono del giorno
che disorienta
decanta
dentro lo spazio
dell'ascolto sottile
Abito pensieri
di parole leggere
che sfiorano
le corde dell'anima
La mia previsione mattutina nel preparare la macedonia, si avverò, fu una mattinata di tutto riposo, fisico e mentale.
Nella penombra della stanza, il sole pomeridiano filtrato da tendine sui vetri, si infila tra poltrona e tavolino, tracciando nell’aria una scia di pulviscolo galleggiante. Comodamente seduto, indosso gli occhiali e rigiro tra le mani il libro preso in biblioteca: Thich Nhat Hanh, Il Sole Il Mio Cuore.
 
Andrea Tarantello
 
In biblioteca mi misi a curiosare in mezzo agli scaffali stracolmi di libri, riviste, manuali e tanto altro. Stavo lasciando la corsia dove mi ero cacciato quando mi imbattei in uno strano libro di colore giallo oro molto vecchio. La bibliotecaria mi disse che era arrivato il giorno prima. Unica copia. Arrivato a casa, d’un solo fiato, mi misi a sfogliare quello strano libro. Solo pagine bianche e una mappa con un disegno familiare … sì, lei, la pietra alle porte della città e, a guardare meglio, c’era anche una piccola scritta in finto latino. Con la mia bicicletta raggiunsi subito il luogo della pietra. La scritta diceva “dietrus solem tesorum”. Aspettai il tramonto e infilai la mano in direzione del sole calante … e … in una minuscola insenatura … eccola la figurina del campione di baseball. Corsi da un collezionista con l’intenzione di capirne il valore. Non ne aveva. Ma io, da quel giorno, la porto sempre con me, come portafortuna!!
 
Maurizio Boccafogli
 
Non feci molti giri di ruota che mi accorsi che le gomme erano sufficientemente sgonfie per farmi sbandare dalla retta via. Per risolvere il problema, ritornai nel garage dove, tra i vari attrezzi, c’era la pompa manuale per gonfiare le gomme delle biciclette di tutta la famiglia. Compito che sembrava fosse solamente di mia competenza, in quanto, i figli e mia moglie, mai si preoccupavano di controllare il buono stato di manutenzione delle loro biciclette. Non dico che feci fatica a gonfiare la mia bicicletta, ma un poco di affanno mi ricordò che la mia età non era più quella giovanile di un tempo passato remoto, e che fantasiosamente pensavo di possedere ancora.
Ripristinato il mezzo, mi accinsi nuovamente a cavalcare il mio economico attrezzo di locomozione quando, spingendo con impeto sul pedale di destra, la catena di trazione cedette dal suo supporto, facendomi sbilanciare e cadere a terra. Rialzatomi e indignato di me stesso, lasciai la bicicletta dove stava e chiamai al telefono lo 0532 900900 per farmi accompagnare in centro città, dove, al BAR DEL CORSO, avrei fatto colazione consolandomi con un cappuccino e una ricciola salata.
 
Cinzia Sordi
 
Parcheggiai la bici sotto il portico davanti la biblioteca, e fu allora che lo vidi. Forse era lì da tempo, invisibile come sanno essere i barboni. Vidi la coperta per prima: era rossa, a quadri, identica a quella di mio nonno. Ero stato un bambino timido e scontroso, sprofondato costantemente nella lettura di libri d’avventura. Il nonno mi portava con sé a pescare, per fare prendere un po’ d’aria al bambino pallido che ero. Io non pescavo, sedevo sulla coperta leggendo, mentre lui armeggiava con lenze e canne. Leggevo ad alta voce, e il nonno mi ascoltava con gli occhi luccicanti. Non ho mai viaggiato tanto, diceva ridendo. Anche l’uomo sotto il portico leggeva, e scoprii che amava Salgari, Stevenson, London. Hai bisogno di qualcosa, gli chiedevo, cibo, soldi, vestiti. Non mi manca nulla, rispondeva,  portami un libro piuttosto. Poi un giorno sparì. Non sapevo niente di lui, mi aveva detto solo di chiamarsi Emilio. Lo cercai nei vicoli della città, nei luoghi dell’accoglienza, negli ospedali . Alla fine mi arresi, e mi piacque immaginare che fosse partito infine,  con il suo fagotto a quadri rossi, per vivere davvero le avventure a lungo lette e sognate.
 
Marcello Novelli
 
Ancora non avrebbe potuto sapere che quella giornata apparentemente tranquilla avrebbe cambiato la sua vita. Per sempre.
Aveva il sole in faccia, caldo in quel giorno di primavera inoltrata mentre sorseggiava un cappuccino cremoso. Già sapeva che lo avrebbe digerito nel pomeriggio per via della sua intolleranza ai latticini. Ma tant'è. Il bar si trovava in uno spiazzo ghiaiato ai lati di una rotonda frequentato da pensionati e disoccupati. Faceva delle brioches alla mela spaziali ed era poco conosciuto. Il dehor esposto al sole per buona parte della giornata rendeva il momento perfetto.
Dall'altra parte del piazzale Carla chiudeva la porta della sua Punto sbattendola, non capiva perché sua madre si ostinasse a incolparla per le sue sofferenze. Non faceva altro che assisterla ogni giorno oltre a lavorare di notte ai magazzini del decathlon. Aveva fame, pizzetta e caffè in quel bar per gente di risulta sarebbero bastati. Prima di entrare una lastra di marmo ghiacciata le si posò sulla schiena, era quello l'effetto che le fece la vista di quell'uomo. Seduto al tavolino. Che la fissava. Maurizio.
I ricordi corsero giù per quella scala a chiocciola che è la memoria fino ad arrivare di fronte a quella cantina che sapeva di umido e mosto. Proseguirono in fondo, fino a quello scrigno. Sotto al ricordo della bestemmia detta davanti a un prete. La scatola impolverata era chiusa da un lucchetto. Si sbriciolò. Aprendosi una scossa scese dall'ippocampo fino al midollo. No. Non adesso. Non era pronta.
 
Tiziana
 
Non avevo fatto nemmeno un isolato, che il tempo era cambiato in modo tanto inatteso quanto repentino e in men che non si dica mi ritrovai sotto una pioggia torrenziale, zuppo e alla ricerca di un qualunque riparo di fortuna dove attendere che spiovesse. Notai più avanti sulla strada, attraverso le lenti degli occhiali, sfocate dai goccioloni d’acqua, una piccola tettoia. Non vedevo bene, curvo com’ero mentre tenevo con una mano la bicicletta e con l’altra i libri sotto la giacca. Mi sistemai là, meglio che potevo, borbottando perché tanto la pioggia sembrava arrivare dappertutto lo stesso. Ero infastidito, odiavo la sensazione dei vestiti bagnati addosso …e poi in questo momento non sarei dovuto essere seduto al bar a bermi quel buon caffè? Che fine avevano fatto i miei programmi? Dovevo aver detto questi ultimi pensieri ad alta voce, perché qualcuno accanto a me sotto la tettoia, del quale davvero non mi ero accorto, mi rispose: “Guardi bene tra la pioggia e il vento…e si ricorderà che oltre le nuvole, c’è sempre il sole”.
 
Simona Gautieri
 
La doccia gelata, nel vero senso della parola, mi piombò addosso dal secondo piano. Una bella secchiata d’acqua, accompagnata da maledizioni pronunciate in un dialetto sconosciuto, mi venne gentilmente omaggiato dalla mia dirimpettaia. “Dove hai messo Ciccio? E’ da ieri che non torna a casa e so che lo hai preso tu!”. “ Ma che cavolo, signora...! Ma chi è Ciccio?”. Sapevo esattamente chi fosse: era il gatto della vicina, quello rosso con il pelo infeltrito e la congiuntivite cronica ad un occhio. E lo avrei preso io? Neanche se me lo avessero regalato. Mentre la vecchia era scomparsa, evidentemente per ricaricare il secchio e rovesciarmi addosso una seconda secchiata d’acqua ebbi la lucidità di riprendere la bici e allontanarmi il più velocemente possibile dal suo mirino. Non era la prima volta che mi rimproverava di qualcosa, la musica alta, le cene con gli amici, salvo poi dimenticarsene e fornirmi di crostate per intere settimane. Sempre e solo crostate all’albicocca, ovviamente la marmellata che, tra tutte, detestavo. Iniziai a ridere da solo a pensarmi fradicio ma ancora di buon umore. E più pedalavo e più ridevo e più ridevo e più capivo che il senso di tutto stava lì: nel pensare che, se volevo, poteva essere una ancor più bella mattina di primavera.
 
Leonardo Cristofori
 
Nell’aria limpida del mattino volavano i pappi cotonosi dei Pioppi, come ad indicare che la vita va presa alla leggera e che, per raggiungere nuovi luoghi fertili dove germinare e ricominciare, bisognava osare e lasciarsi andare.
Esattamente il pensiero che avevo ieri sera, dopo che io e Sara ci siamo lasciati.
Restare in cucina e preparare la macedonia mi aveva rilassato. La tv aveva intaccato subito questo mio equilibrio ritrovato per pochi minuti, ma l’aria fresca che mi sfiorava la faccia mi faceva stare bene. Entrando in biblioteca gli scaffali con i libri ordinati mi sussurravano parole d’incitamento, rosso fuoco. Sognavo già di attraversare l’Europa e dormire in ostelli odorosi, affollati, mischiare il mio viso con altri visi, così come il mio accento con altri stranieri, inediti, speziati, affamati di vita come me, come un seme che nasce nel sottobosco di una foresta. Il mio destino era già scritto e non vedevo l’ora di incamminarmi. Poi, a fianco degli scaffali della letteratura americana contemporanea, scorgo una ragazza che si gira e mi viene incontro sorridente. “Ciao Sara!”
Dopotutto era un bel sabato di primavera.
 
Chiara Tarabotti
 
Mi accorsi da subito, invece, che qualcosa non andava. Click. Il ginocchio. Il ginocchio non rispondeva ai comandi. Provai a riprogrammarlo di corsa ma il sistema di sicurezza della bici mi impedì di staccare le mani dal manubrio. Spinsi sul pedale con la gamba vecchia ma la ghiaia sotto la ruota di dietro schizzò dappertutto facendomi sbandare. Rovinai a terra. Maledetti esperimenti bionici. Da quando era iniziata la moda della sostituzione sembrava che non se ne potesse più fare senza. Cretino io a esserci cascato! E ad averle dato retta. Quella gamba doveva essere l’inizio di qualcosa di serio, una sorta di patto o di pegno. Un do ut des. Gamba contro lavoro, il posto in ufficio, il trasferimento sul satellite; mi ero pure comprato questa inutile bicicletta. Invece lei se l’era filata e io ero rimasto a mangiare frutta sulla terra, anziché pasticcini nello spazio. Un suono mi scosse: il sistema di sicurezza aveva inoltrato chiamata al meccanico. Quattro, cinque squilli. Il telefono squillava a vuoto. Ovvio, il meccanico era chiuso. Era proprio un bel sabato di primavera.
 
Marta Leoni
 
A quel punto incrociai un tizio che mi correva incontro. Evitai per un pelo lo schianto, lui correva trafelato con una grande una tela incorniciata, in mano. Poteva almeno scusarsi, pensai. Nemmeno il tempo di riavermi quando udii una donna, sovrastata dal suono di un allarme: “Al ladro!”. Forse che...? Ma certo! “Chiami la polizia, signora, l'ho visto scappare col quadro! Dica che è diretto in piazza Ariostea” La signora mi guardò, senza dire nulla. Era sotto shock. Girai la bici, non senza timore, e cominciai a pedalare a tutta velocità. Rischiai di perderlo di vista ma, dopo secondi, risalì verso corso Porta Mare. “E se fosse armato? Ah, non devo essere timoroso, sarà sufficiente vedere dov'è diretto”. Gli gridai “Altolà, si fermi, sono in grado di identificarla”. Lui si voltò verso di me e sorrise. Pensai: “Mi prende in giro! Ma ecco i vigili! Grazie al cielo! Ma cosa fa? Gli corre incontro? È pazzo!”. Mi precipitai: “Signor vigile! Lo fermi, è un ladro!” Il vigile guardò il ladro: “Vuole spiegarmi?”. Il signore: “Non so, sono uscito dalla bottega del restauratore di corsa perchè sapevo di avere la macchina in divieto. Più o meno laggiù questo svitato ha cominciato a seguirmi e urlare”. Incalzai “l'ho vista uscire da una casa dove c'era stato un furto”. Al chè il vigile visibilmente irritato: “lei si faccia i fatti suoi, i ladri sono già stati presi, sotto al conservatorio. Circolare, oggi non è giornata da eroi”. Mortificato tornai verso la biblioteca, sebbene a quel punto fossi un po' meno forte della convinzione che sarebbe stata una mattinata di tutto riposo, fisico e mentale.

                       
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